
Vittime sacrificali
Il nuovo DPCM, firmato il 24 ottobre 2020 dal governo Conte, prevede, insieme ad altre misure per arginare i contagi da Covid-19, anche la chiusura di cinema e teatri. Duro colpo, per coloro i quali vivono grazie alle attività artistiche e che, di conseguenza, si trovano ancora una volta a dover fare i conti con una realtà che sa di punizione. Infatti, sebbene la nuova ondata di contagi non debba lasciare indifferenti di fronte ad un problema che rischia di aggravarsi ulteriormente, sembra quasi che il virus che ha rivoluzionato radicalmente il nostro modo di vivere e di agire, scelga le sue vittime soprattutto tra attori, registi, tecnici, costumisti e, in generale, tra lavoratori dello spettacolo e spettatori. Un virus sicuramente anomalo, siccome sembra non esistere invece all’interno di mezzi di trasporto sovraffollati, scuole e, dulcis in fundo, chiese. Perchè, ahimè, queste ultime, stando al DPCM in questione, possono restare aperte. Chi si reca, dunque, ad ascoltare la parola di Dio, avrebbe meno probabilità di essere infettato che se andasse a vedere un film o ad assistere ad uno spettacolo. Per uno Stato che si professa laico, è sicuramente un modo singolare di gestire la situazione. Eppure, il settore dell’intrattenimento ha già più volte tentato di avviare un dialogo con il governo, anche attraverso la recente iniziativa che ha visto schierati 500 bauli vuoti (in genere contenenti l’attrezzatura per allestire gli spettacoli) in piazza Duomo a Milano per denunciare silenziosamente la crisi in cui versa il mondo dello spettacolo. Ma non è servito. Sembra così naturale connettere l’intrattenimento con l’attenzione generale, pensando a come la notorietà di alcuni artisti influenzi le masse, eppure mai come adesso, tutto questo appare un’illusione. Mai come in questo difficile periodo storico, l’arte sembra non avere voce, e il mondo non avere orecchie. E’ assurdo dover assistere impotenti al fallimento di ogni logica, alla perdita di ogni valore, ad una crisi più profonda di quella sanitaria: il Covid non solo ha distrutto ogni certezza, ma ha mostrato la fragilità di qualcosa che appariva consolidato e che ,invece ,è stato subito sacrificato sull’altare della salvaguardia delle apparenze, immolato per dimostrare che si hanno le redini di una situazione più grande di qualsiasi decreto. Prendere una decisione qualsiasi non è lo stesso che prendere quella giusta, nella necessità di bilanciare gli interessi di chi è più potente con le pressioni di un popolo che vuole sentirsi protetto e salvaguardato. Se da un lato l’apertura dei luoghi di culto può essere fondamentale per qualcuno, offrendo quel conforto che ora è più che mai ricercato, dall’altro appare assolutamente insensato constatare l’ennesimo stop imposto ad un settore lavorativo che non può vivere di attese e di speranze. L’arte, se non dà solo lavoro a migliaia di persone, offre anche vicinanza e sostegno, al pari della fede, e rinunciare a essa non darà quelle certezze tanto desiderate. E tutto ciò diventa ancora più difficile da accettare, se ci soffermiamo a pensare che altre realtà come, ad esempio, quella calcistica, sono di fatto al di sopra di ogni emergenza. La pandemia non scende mai in campo con i giocatori, non va in chiesa tra i fedeli, ma si siede comodamente tra le poltrone di un cinema che adesso saranno di nuovo vuote e assiste a spettacoli che ora, ancora una volta, nessuno porterà in scena. C’è qualcosa di più spaventoso della pandemia stessa: il cinismo che ha mostrato. L’arte non sta morendo di Coronavirus, ma di negligenza e di disattenzione che a volte possono essere più letali di qualsiasi patologia. “Quando un buono è ferito, tutti quelli che possono essere chiamati buoni devono soffrire con lui” ha detto Euripide: non resta che sperare in un mondo in cui la sofferenza basti ad azionare un cambiamento.

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